Gazzetta di Modena

L’appuntamento

Antonio Albanese presenta a Modena il suo primo romanzo: «Racconto la storia di mio zio Nino, può dare forza ai giovani»

di Cristiana Minelli

	Antonio Albanese e la copertina del suo romanzo
Antonio Albanese e la copertina del suo romanzo

L’attore, comico, registra e scrittore domenica 6 aprile sarà al Bper Forum Monzani per parlare di “La strada giovane”: «Durante la seconda guerra mondiale fu preso dai tedeschi in Sicilia, finì deportato e fece 1.700 chilometri a piedi per tornare. Lui, che è sempre stato per la pace, neanche aveva capito le ragioni di quella guerra»

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MODENA. «La strada giovane», il primo romanzo di Antonio Albanese (128 pagine, 16 euro, Feltrinelli), è un libro di pace. Nato da una confidenza che suo zio gli fece quando era bambino: «Sono fuggito da un campo di prigionia, sono sopravvissuto mangiando lumache, bevendo l’acqua degli stagni». Un’immagine sbiadita eppure vivissima, che negli anni lo ha spinto a cercare fra le storie di altri 500mila internati, finiti, senza neppure sapere perché, in campi di prigionia. Attore, comico, cabarettista, regista e scrittore, con Alex Drastico, Cetto La Qualunque, Epifanio e altre maschere iconiche, Antonio Albanese ci ha fatto parecchio ridere. Nel corso della lunga e ricchissima carriera, però, ci ha fatto anche riflettere. E commuovere. E adesso mette fra le righe un romanzo ispirato a una storia di famiglia che presenterà domenica 6 aprile alle 17,30 al Bper Forum Monzani (via Aristotele 33, Modena) in dialogo con Giuliano Albarani. Perché a volte ritornano, le storie che, anche senza saperlo, ci hanno resi quelli che siamo. E bisogna scriverle. Perché, nella loro unicità, sono universali.

Il romanzo

Durante la Seconda Guerra Mondiale Nino è un giovane panettiere siciliano, un ragazzo poco più che ventenne, che viene catturato dai tedeschi dopo l’8 settembre. In forma romanzata, Nino è lo zio dell’autore, che, in fuga dal campo di prigionia in Austria si è davvero fatto 1700 chilometri a piedi per tonare a casa. Lui, che è sempre stato per la pace, che le ragioni della guerra neanche le aveva capite, nell’ottantesimo anniversario della Liberazione è diventato il protagonista di questo libro. Un giovane confuso, in balia degli eventi, convinto che i tedeschi, prima o poi, lo avrebbero restituito alla sua famiglia, a Petralia Soprana, sulle montagne delle Madonie. Invece gli è toccato salire su un treno diretto oltre le Alpi, dove ad aspettarlo c’erano solo fame, freddo e paura. Internato militare in un campo di prigionia, ultimo fra gli ultimi, approfitta del capodanno del ’44 per fuggire. Anche se poi, fuori, è come sopravvivere, a mani nude, nella giungla. Perché si vaga alla disperata ricerca di cibo e riparo, scansando pericoli, cercando di andare oltre la diffidenza – e la ferocia – di chi s’incontra. È armato solo di ricordi. Memorie che hanno un profumo, a volte un sapore. Del burro e della vaniglia dei biscotti di suo padre, per esempio. E che infiammano, se il calore che li alimenta è quello dei baci di chi, forse, è rimasto ad aspettare, la Maria Assunta che Nino vuole riabbracciare ad ogni costo. Al lettore di questo libro capita di finire nel fango, di sentire i morsi del gelo e pure di nutrirsi, come il protagonista, delle lumache rosse che sbucano dopo la pioggia.

L’intervista

Antonio Albanese, da dove arriva questo libro?

«Da lontano. Ero bambino, in vacanza in un borgo nel parco delle Madonie. Un posto onesto, garbato. Avevo uno zio sempre felice, che amava ballare. Che un giorno mi ha raccontato la storia della sua prigionia e del suo ritorno a casa. Poche parole, che sono rimaste tatuate dentro di me. Solo più tardi ho scoperto che raccontavano, con la sua, la vicenda di tantissimi che, come lui, sono stati abbandonati, travolti da eventi che nemmeno hanno potuto davvero comprendere».

Nino, a modo suo, un eroe…

«Volevo scrivere la storia di un giovane eroe. Normale. Che non sapeva perché si trovava lì. Lui seguiva il re. Poi è stato abbandonato ma è riuscito ad affrontare tutta quella barbarie da solo. A piedi. In silenzio. Spinto dal desiderio di tornare alla sua armonia. Quella di casa. Quella di un equilibrio perfetto. E alla magia di un amore che l’ha sempre spronato a mettere un piede avanti all’altro».

Ci sono tratti della vita, a volte, che si possono percorrere solo a piedi, cioè con grande sacrificio…

«Attraverso questa vicenda ho voluto mandare un messaggio soprattutto ai giovani. Sono sempre affascinato dalla loro energia. Che a volte disperdono e di cui invece dovrebbero essere consapevoli. Perché tutti ce l’hanno. Questo potenziale. Anche se molti non ci credono. Sono circondato da giovani. Affascinato da loro. Ho due figli, cui il libro è dedicato, ma penso anche ai figli degli amici. A tutti i giovani. Qualcuno deve sostenerli. Non farlo è sbagliato. Sono il nostro futuro».

Una storia di guerra può contribuire alla pace?

«Sì, questo è un libro di pace. Che cerca una soluzione. Sono rimasto molto colpito al tempo della guerra nella ex Jugoslavia. Perché era talmente vicina che avremmo potuto sentire l’eco dei colpi, delle bombe, delle battaglie. Da allora in realtà i conflitti non si sono più fermati. Ora viviamo una combinazione dolorosa, atroce, terribile, che ci spaventa, ci destabilizza. La storia di questo ragazzo dovrebbe insegnarci a fidarci. Non fidarsi fa scattare la competizione, che poi si trasforma velocemente in scontro».

Da molti anni interpreta personaggi che sono diventati parte della cultura e del costume italiano. Ha pubblicato numerosi libri, dato voce, corpo e anima a molte storie cinematografiche. Un romanzo come questo, da scrittore, se lo aspettava?

«Ci ho messo molti anni a scriverlo. Avevo cominciato mettendo nero su bianco una sceneggiatura per un film. Poi un’amica mi ha detto che una storia come questa avrebbe potuto anche essere raccontata in forma di romanzo. E allora ho dato voce a un giovane che parli a tutti i giovani, che li guidi alla scoperta della loro forza interiore. Non è una questione di bontà ma di gioia e di condivisione».

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